Barbari benefici o Apocalisse

di Alberto Natale

Cfr.



4 - LA MUTAZIONE

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4.1 Al riparo dei fiori del tempo

4.2 Pietrificati nell’attesa.

4.3 «Credo nelle chiacchiere dei barbari»

4.4 «E noi riponevamo in loro ogni speranza»

4.5 La mutazione

4.6 Frontiere come muri o come ponti?



4.1 Al riparo dei fiori del tempo

La storia ci ricorda che è impossibile arrestare le ondate migratorie, barbariche o meno che siano. Difese naturali e artificiali, valloni di frontiera, muraglie, fortificazioni hanno sempre mostrato una cronica porosità: presto o tardi le brecce si aprono inesorabili. La guerra a volte viene immaginata come l’unica opzione difensiva possibile, ma combattere i barbari nelle loro steppe appare un’impresa disperata, di esito incerto e di improbabile, definitiva risoluzione del problema. Le migrazioni dell’homo sapiens sono sempre avvenute in barba ad ogni difficoltà e ostacolo. Pertanto l’opposizione alle invasioni barbariche si configura inevitabilmente come un orizzonte limitato all’arco vitale di poche generazioni, ricacciando le paure in un futuro nel quale, chi le ha immaginate, non abiterà ormai più. Si può soltanto cercare di prendere tempo, rallentare il processo, forse con la segreta speranza che i barbari smettano di premere ai nostri confini e cambino strada, andando a creare grattacapi altrove.

Sospingere indietro l’inesorabile, ritardarne il funesto avverarsi forse è possibile, ma è assai difficile valutare il prezzo pagato per un simile titanico sforzo.

Nel racconto di James Ballard, Il giardino del tempo , l’inevitabile accade, nonostante l’espediente magico dei fiori del tempo: il conte Axel vive ritirato insieme alla consorte nella sua preziosa e solitaria «villa palladiana», con annessa ampia terrazza, giardino e mura di cinta. Tutto intorno si stende una grigia pianura, ondulata da creste poco profonde. Dalla terrazza si può vedere l’orizzonte in cui nereggia ciò che sembra essere «l’avanguardia di una folla immensa». Il conte sembra l’espressione di un aristocratico del primo Novecento: «profilo alto e imperioso», «giacca di velluto nero», «spilla d’oro alla cravatta», «barba tagliata alla Giorgio v», bastone da passeggio e mani guantate di bianco. Spia l’orizzonte (come tutti coloro che aspettano i barbari), ascolta distrattamente il clavicembalo della moglie che diffonde un rondò di Mozart. Ha appena lasciato la sala della biblioteca ricca di «rari manoscritti», ha attraversato lentamente «il corridoio dei ritratti» e ha disceso l’ampia scalinata «in stile rococò» per passeggiare in giardino fra i fiori del tempo. Scrutando l’orizzonte studia quell’esercito in lontananza «formato da una vasta e confusa folla di gente, uomini e donne, inframmezzati da pochi soldati in uniformi lacere» che avanza come «una disordinata marea». Coglie allora un fiore del tempo grande come un calice, staccandolo dal suo stelo vitreo, e resta guardarlo mentre questo manda scintille «liberando infine la luce prigioniera al suo interno», prima di estinguersi. Poi torna a scrutare la pianura: la marea umana è stata ricacciata indietro, dietro l’orizzonte.

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4.2 Pietrificati nell’attesa


Ma i fiori del tempo sono ormai pochi e il giardino sta morendo. Gli ultimi fiori vengono spezzati uno dopo l’altro, mentre l’immensa moltitudine stracciona si avvicina inesorabile. Ormai può essere ricacciata indietro soltanto per tempi sempre più brevi. Cosciente dell’avvicinarsi della fine, la contessa, una donna dal viso «sereno e intelligente» i cui ricchi abiti mettono in evidenza «il collo lungo e sottile e il mento alto e nobile», chiede di poter essere lei a recidere l’ultimo fiore del tempo. Ormai si odono le grida e gli aspri richiami della sterminata massa umana avanzante, sempre più vicini e sempre più forti. I coniugi si preparano alla fine ormai non più rimandabile, si abbigliano con cura; lui sigilla i manoscritti e riordina diligentemente la biblioteca, spolvera i ritratti. Fanno insieme la consueta passeggiata in giardino, destinata ormai ad essere l’ultima. Gli ultimi due piccoli fiori del tempo vengono raccolti, ma i loro «nuclei temporali compressi» bastano ormai per guadagnare soltanto pochi minuti. All’aristocratica coppia non resta che attendere l’inevitabile, stringendosi in un trepido abbraccio. Axel, come il tenente Drogo, all’ultimo si aggiusta «la cravatta di seta».

La sterminata massa umana occupa ormai l’intera pianura fin’oltre l’orizzonte e ciò che sembrava il corpo principale si rivela in realtà soltanto un’avanguardia. Si abbatte sulla villa. Scavalca senza difficoltà i ruderi dei muri non più alti di un ginocchio, sciama nel giardino imputridito, passa attraverso la casa dai muri sfondati e i solai crollati. Qualcuno vede i resti di un clavicembalo fatto a pezzi per essere trasformato in legna da ardere, i libri rovesciati e in procinto di trasformarsi in polvere, i dipinti sfregiati e le cornici dorate in pezzi.

Nel frattempo la folla immensa prosegue il suo cammino e nessuno sembra notare le due statue prigioniere in un groviglio di rovi sotto i ruderi della terrazza: la più alta mostra un uomo barbuto con un bastone da passeggio, l’altra una donna elegantemente vestita che stringe un fiore tra le mani.

In definitiva, più che rallentare i barbari, lo sforzo del differire sembra capace di produrre soltanto un perverso slittamento temporale nel quale, più che guadagnare futuro, ciò che si riesce a ottenere è soltanto il mantenimento congelato e sospeso del proprio passato, mentre la civiltà intorno si sfalda e si corrode e le nostre identità si mutano in pietra, si ricoprono di polvere.

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4.3 «Credo nelle chiacchiere dei barbari»


Non sono mancati nella letteratura i tentavi di accreditare un’immagine positiva della barbarie, contrapposta idealmente alla deriva catastrofica della modernità. A causa di quest’origine oppositiva i connotati di tale immagine finiscono per rivelarsi necessariamente regressivi e nostalgici come nelle rappresentazioni mitiche dell’“età dell’oro” e del “buon selvaggio ”. Infanzia e animalità, ingenuità e idiozia, istinto e spontaneità ridiventano valori positivi, addirittura fondativi di un mondo possibile, forse non ancora perduto per sempre. Insieme alla curvatura del nucleo temporale che ripristina un tempo ciclico in luogo di quello lineare – dove la storia viene sostituita dal “mito dell’eterno ritorno” – lo spazio torna ad essere quel luogo di natura non piegato dal volere umano nel quale i viventi albergano in armonia. Il tema del rimpianto mitico è facilmente riscontrabile nelle letterature di ogni paese e di ogni tempo e non è qui il caso di approfondire il tema Ciò che si vuole sottolineare è che l’idea stessa di barbarie possa oscillare tra i due archetipi dell’apocalisse e dell’età dell’oro.

In un’intervista, raccolta da Jean Duflot nelle Dernières paroles d’un impie (opera tradotta in Italia col titolo Il sogno del centauro) Pasolini confessava di amare la parola «barbarie» più di ogni altra parola al mondo,

perché la barbarie è lo stato che precede la civiltà, la nostra civiltà: quella del buon senso, della previdenza, del senso del futuro. Capisco che ciò possa sembrare irrazionale e perfino decadente. Me ne rendo conto nel momento stesso in cui ne parlo, ma non cambia nulla. Bisogna sapere che la mia formazione politica si è compiuta in compagnia di “decadenti” quali Rimbaud, Mallarmé, ecc. A questo decadentismo bisogna restituire il suo senso storico, senza moralismo. E in questo senso non è né negativo né positivo. È semplicemente l’espressione di un rifiuto, dell’angoscia dinanzi alla vera decadenza generata dal binomio Ragione-pragma, divinità bifronte della borghesia.

Massimo Fusillo ha messo in luce il comune sentire di Pier Paolo Pasolini e di Elsa Morante di fronte al tema della barbarie, anche se espresso con tonalità diverse e tipiche degli autori, dall’assertivo pasoliniano all’intimismo della scrittrice della Serata a Colono da cui è tratto il titolo del saggio di Fusillo:

Si sa che queste sono tutte dicerie barbare e fanfaluche. / Ma io credo nelle chiacchiere dei barbari e nelle balle infantili. / […] Credo nell’ignoranza e nei sogni e nel delirio / credo in tutte le storie più prodigiose o idolatriche / e in tutte le cose impossibili. / Solo nella mia morte, io, / non credo.

Sembra il ritratto della cultura africana (o almeno della sua immagine postcoloniale) che, secondo Pasolini, è destinata a soppiantare un giorno i modelli industriali che hanno corrotto la vecchia Europa, e distrutto il pur creativo «sottoproletariato latino». In Poesia in forma di rosa l’autore evoca i Denka e gli altri popoli «delle centoventi altre tribù / parlanti suoni di ceppi diversi», auspica «una discesa di barbari alloglotti» che potranno finalmente riposare «nel gelo dei praticelli fiorenti» dedicandosi poi a qualche lavoro manuale «non indegno, / mai, dell’uomo». In ciò consisterebbe la rinnovata semplicità e l’intima verità umana destinata a dispiegarsi nella «nuova Preistoria» contornata di alberi «splendidi come fiori»:

Miliardi di viventi, / una dolce mattina si desteranno, / al semplice trionfo delle mille mattine della vita, // con la maglia riarsa… con l’umido / del primo sudore… Felici – essi – / felici! Essi soltanto felici! // Essi soltanto possessori del sole! / Lo stesso sole del barbaro / che nel Medioevo discese, // e, dalle gole dei monti, dalle ombre / della neve, si accampò / sull’erba nera e folta, / cattiva e felice degli argini d’aprile. // Solo chi non è nato, vive! / Vive perché vivrà, e tutto sarà suo, / è suo, fu suo! // Si apre come un’aurora / Roma, dietro le spirali del Tevere / gonfio di alberi splendidi come fiori, // biancheggiante città che attendi i non nati, / forma in certa come un incendio / nell’incendio di una Nuova Preistoria.

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4.4 «E noi riponevamo in loro ogni speranza»


Capita di rado in Letteratura che siano i barbari a non volerci degnare di attenzione, mentre noi li attendiamo con ansia. Per questo motivo la poesia Aspettando i barbari di Costantinos Kavafis assomiglia a una gemma solitaria del tema eterno dell’attesa. In essa la città si prepara ad accogliere i barbari con tutti gli onori. L’attività pubblica si ferma – tutto il popolo è in piazza – e le autorità preparano ricchi doni per il loro kahn, restando in attesa con abiti da cerimonia e facendo sfoggio di tutti gli emblemi del proprio rango. Ma a sera la fatale notizia arriva: i barbari non verranno più. Per tutta la città dilagano sconforto e delusione, uniti a un doloroso sentimento di abbandono: «Sciagura a noi! /Ci hanno lasciati / orfani i barbari – e noi riponevamo / in loro ogni speranza / di soluzione delle nostre grane».

Nelle speranze di Pasolini e Kavafis il ruolo dei barbari si prospetta quindi come quello di un rinnovamento auspicato, il ritorno della palingenesi apocalittica capace di porre fine ai nostri affanni, alle nostre amarezze più segrete, perché – questo è il punto decisivo delle immagini della modernità – i veri barbari sono già tra noi, hanno già occupato i nostri villaggi, sciamano senza ritegno nei templi della nostra civiltà, si affacciano con aria sbrigativa e distratta per sbirciare le nostre collezioni artistiche più preziose, comprano, senza saperle apprezzare davvero, le più raffinate creazioni del nostro talento creativo. Non appartengono però alle avanguardie dell’invasione multietnica tanto temuta, non sembrano gli avventurieri replicanti della globalizzazione. Hanno i volti dei nostri figli, anzi, sono i nostri figli.

Sta avvenendo una mutazione, sostiene Alessandro Baricco nel suo saggio sui Barbari, destinata ad archiviare per sempre l’epoca Romantica in cui ancora viviamo, retaggio del pensiero e dei valori fondativi della borghesia un tempo trionfante. Si può addirittura pensare che si stia per concludere un’epoca ancor più antica, che per millenni ha visto nell’aggregarsi delle comunità di coltivatori il centro del mondo, che ha elevato di rango la stanzialità da cui sono nate le nostre orgogliose città e con esse le patriottiche e bellicose nazioni, che ha relegato le donne in un ruolo ancillare (come sostiene l’antropologa Germaine Tillion ) a causa proprio della sedentarizzazione e del potere acquisito da chi deteneva la padronanza sacrale delle tecniche agricole. Siamo forse giunti al termine del Neolitico e una nuova era è finalmente pronta a dispiegarsi dopo la rivoluzione delle macchine e dell’elettronica.

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4.5 La mutazione


Il paradigma della mutazione intravista da Baricco consiste essenzialmente nel progressivo spostamento verso l’orizzontalità dell’acquisizione del sapere, contrapposta allo scavo nella dura pietra della profondità delle cose. Google rappresenta l’epitome di questa nuova fede abbracciata dai barbari. La superficialità di Google, la fragile autorevolezza di Wikipedia testimoniano in realtà soltanto il movimento dell’animale mutante, certamente non il suo modo di intendere «l’esperienza». È proprio il modo di concepire l’esperienza che mette in luce l’essenza della mutazione: non più la ricerca lenta e faticosa per accedere all’intimità delle cose, non più viaggi in profondità. L’acquisizione diventa una «traiettoria» esperienziale.

Le loro traiettorie nascono per caso e si spengono per stanchezza: non cercano l’esperienza, lo sono, Quando possono, i barbari costruiscono a loro immagine i sistemi in cui viaggiare: la rete, per esempio. Ma non gli sfugge che la gran parte del terreno percorribile è fatto di gesti che loro ereditano dal passato, e dalla loro natura: vecchi villaggi. Allora quel che fanno è modificarli fino a quando non diventano sistemi passanti: noi chiamiamo questo, saccheggio.

I luoghi del sapere diventano accessori d’uso per poter trarre l’energia sufficiente a proseguire la navigazione, smettono di essere centri di culto e vengono ridefiniti in oggetti gravitazionali capaci di imprimere una spinta inerziale. Entrare e uscire con disinvoltura dai sistemi passanti costituisce in sé la nuova esperienza barbarica di cui il “multitasking” delle nuove generazioni fornisce un valido esempio.

Quanto a capire in cosa consista, precisamente questa mutazione, quello che posso dire è che mi pare poggi su due pilastri fondamentali: una diversa idea di cosa sia l’esperienza, e una differente dislocazione del senso nel tessuto dell’esistenza. Il cuore della faccenda è lì: il resto è solo una collezione di conseguenze: la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica. Uno smantellamento sistematico di tutto l’armamentario mentale ereditato dalla cultura ottocentesca, romantica e borghese. Fino al punto più scandaloso: la laicizzazione brusca di qualsiasi gesto, l’attacco frontale alla sacralità dell’anima, qualunque cosa essa significhi.

I barbari dilagano, come hanno sempre dilagato anche al cospetto della Grande Muraglia, simbolo del raffinato impero cinese. È vero, come ricorda Baricco, che il vero scopo dell’immane costruzione non era tanto militare ma filosofico: serviva a definire “la civiltà” e non a respingere i barbari, rappresentava un monumento celebrativo di potenza più che un’opera di difesa. Ma non è detto che oggi sia ancora possibile concedersi un tale lusso, continuare a recriminare sulla irreversibile perdita di sapere, come si legge ogni giorno sui quotidiani . Si perde qualcosa da un lato e si guadagna qualcosa dall’altro: l’orizzontalità estende le facoltà di conoscenza al prezzo di sacrificare l’indagine profonda. Il mondo si fa più vasto e genera nuove opportunità, ma spesso risultiamo stranieri in casa nostra. Resta il fatto che i “link” di Google, benché simili a palombari apprendisti, continuano potenzialmente a svolgere quel ruolo di esploratori del profondo che un tempo attribuivamo ai sacri testi e che, volendo intraprendere uno scavo, resta sempre la possibilità di fermarsi un momento, osservare il pozzo e decidere se sia il caso di esplorarlo. Nulla potrà impedirlo purché si abbia la consapevolezza di muoversi «nella mutazione» e non contro di essa.

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4.6 Frontiere come muri o come ponti?


Come Žižek anche Tzvetan Todorov ritiene che sia proprio la paura dei barbari «ciò che rischia di renderci barbari». Combattere questa sconfortante deriva significa respingere il dettato di due opposti populismi, entrambi sollecitati dalle stesse forme di potere: bisogna essere in grado di sfuggire tanto alle ipotesi reazionarie quanto al politically correct progressista. Entrambi i populismi sono fortemente identitari e quindi destinati all’insuccesso: se le istanze reazionarie propongono un’identità di nazione da difendere con la xenofobia (la colpa è degli stranieri) il populismo progressista che invoca il multiculturalismo – spesso con scarse conoscenze delle diversità culturali in gioco – prospetta uno schema identitario individuale (le diversità esistono a causa della distribuzione delle ricchezze). In entrambi i casi si perde di vista la realtà, e i veri attori in gioco diventano figure dai contorni sfuggenti. Bisognerebbe, dice Todorov, riconoscere la necessità delle frontiere e tuttavia essere pronti a trasformarle in «ponti»; riconoscere le diversità e integrarle, ove possibile, non nella direzione del “tutto è lecito” (tipico del relativismo culturale e di tanto pensiero post-moderno) e nemmeno in quella che predica la conversione “alle nostre usanze e ai nostri costumi” (pretesa di spoliazione culturale, tipica di tanto pensiero di destra), ma cercando i punti comuni già esistenti, valorizzandoli e facendone occasioni di riferimento normativo condiviso.

In un quadro del genere le differenze si trasformerebbero non più in situazioni di attrito ma in vere opportunità di scambio poiché – come ricorda Todorov – «“una medesima legge non significa una medesima cultura”», non esistendo nei fatti «un’umanità universale». «Se gli esseri umani venissero privati di ogni cultura specifica, cesserebbero semplicemente di essere uomini».

Occorrerebbe, in definitiva, rovesciare il paradigma costruito – sottolinea Žižek – dall’«ideologia egemonica del multiculturalismo democratico» basato sulle “differenze tra uguali” per trasformarlo nel nuovo modello, auspicato da Todorov, fondato sulle “condivisioni tra diversi”, nel quale prima di chiedersi “che cosa ci divide” occorre porsi piuttosto la domanda “che cosa ci unisce».

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