Percorsi infernali in Piero Camporesi


di Alberto Natale

Cfr. "Griseldaonline", Inferni, numero i, marzo - ottobre 2002
http://www.griseldaonline.it/percorsi/archivio/Natale_Inferni_Camporesi.htm
Cfr. inoltre, per una riedizione accresciuta, in Marco Belpoliti (a cura di) Piero Camporesi, "Riga", n. 26, Milano, Marcos y Marcos, 2008, pp. 354-370.



Il pozzo scuro della regione infernale è un luogo che Camporesi ha ripetutamente esplorato fin da quando il suo Carnevale, cuccagna e giuochi di villa (meglio noto come Il carnevale all’inferno) fu pubblicato, quasi trent'anni fa, nella rivista diretta da Raffaele Spongano, «Studi e problemi di critica testuale»1. Si trattava di una innovativa lettura della demonologia dantesca che - filtrata attraverso la prospettiva folklorica - permetteva di gettare più di una luce sui canti xxi e xxii della prima cantica, ricostruendo il senso, altrimenti sfuggente, della'farsa dei diavoli':

È l'inferno-carnevale della tradizione subalterna a sforzare la penna dantesca, una delle poche parentesi e figurazioni (ma non l'unica) in cui il lettore può assistere alla carnevalizzazione e alla trivializzazione dell'ideologia del perfetto meccanismo del castigo2,

una pausa, quasi un ripensamento nella geometrizzante e tassonomica struttura aristotelica e tomistica che caratterizza l'Inferno. «La "diversa cennamella" di Barbariccia segna il culmine della carnevalizzazione del canto xxi, inatteso finale a sorpresa che non ha mai mancato di stupire innumerevoli schiere di lettori e d'interpreti»3.

L'inferno 'serio' e minaccioso scivola nella parodia, come attratto in un vortice visionario collettivo che sembra distrarre il Poeta dal suo personalissimo viaggio e parlare in sua vece; la caratteristica volgarità 'programmata' del rituale carnevalesco irrompe con tutto il suo clamore, ‘sforzando’ «la penna dantesca», e lasciando intravedere una sfilata di mascheroni peteggianti, giganti grotteschi e demoni scatologici, simboli mostruosi della fecondità e della rinascita secondo i tipici paradigmi di un’ancestrale ritualità agraria di inevitabile ascendenza popolare. Nella logica di 'inversione' propria del carnevalesco e del 'mondo alla rovescia' trionfavano il rimosso del 'basso corporeo', la frenesia della bestialità, i ludi viscerali espressi mirabilmente dallo stesso «squaquaratissimo, sloffeggiantissimo, ingordissimo, sfondatissimo diluviatore Signor Carnevale»4, emblema del tempo rovesciato, del mondo a 'capinculo' in cui era prescritto di «sbevazare papare sgolazare squaquarare trachanare ingultire lecare stragualzare surbire et gualcire robbe delicate bone et sbilisighente»5.

L'esaltazione del ventre e dei processi digestivi venivano calati in un tempo alterato, decisamente fuori giri ed esibiti in corteo da una chiassosa masnada comandata dal «Re de' Pazzi» - che trova un preciso riferimento in quel «Rubicante pazzo» d'Inf., xxi, 123 e nel manipolo diavolesco dai nomi di maschere grottesche: Calcabrina, Cagnazzo, Farfarello, Draghignazzo, etc.

In questa incursione all’interno dell’opera forse più canonica della letteratura universale emerge con chiarezza quale fosse il metodo (filologico e antropologico) con il quale Camporesi conduceva le sue indagini testuali: ricordare che Dante, «pur accettando etiche aristocratiche e filosofie "superiori"» non poteva talvolta evitare il contagio della «demonologia "bassa" elaborata dalle plebi delle campagne»,6 significa non soltanto collocare testi e autori nel loro inevitabile contesto di produzione, ma anche e soprattutto pagare un debito, spesso ignorato con cinica disinvoltura dagli studiosi di letteratura, riconoscendo l’importanza dell'humus 'popolare' all'interno di un corpus di grande tradizione letteraria.

Camporesi, fin dal suo incontro col testo dell'Artusi7, si era allontanato dalle abituali, confortevoli ma spesso segregate dimore dell'Accademia, e aveva cominciato a deviare dal percorso canonico in voga ai suoi tempi, da quell'analisi del testo visto come pura forma, che appariva ai suoi occhi come una soffocante e forse sterile prospettiva di ricerca, lontana dalla realtà della vita concreta in cui quelle umane avventure di scrittura e di rielaborazione del vissuto si erano pur formate e che ora, registrate su quegli antichi libri che egli frequentava con serietà e passione, gli restituivano (come amava dire) «l'odore dei secoli» permettendogli di cercare quel mondo che si celava dietro al testo. Il cammino intrapreso si dipanò per trent'anni lungo sentieri scarsamente esplorati ma ricchissimi di suggestioni: quel muoversi in limine tra letteratura, storia, sociologia e antropologia improntò la cifra stilistica e poetica di un autore sempre più propenso a indagare il processo di formazione dei testi quasi fossero prodotti collettivi di una comunità culturale, pur rappresentata, a seconda dei casi, nelle sue varietà, singolarità, stratificazioni e contrapposizioni, attraverso una tavolozza ricca e composita di autori.

Se si dovesse definire la cifra distintiva dei percorsi di ricerca di Camporesi si sarebbe tentati di fissarla in una semplice congiunzione, tra, sottolineando la libertà di movimento che il termine consente nella lingua italiana, senza vincoli tra numero e posizione degli elementi congiunti a differenza di altre lingue (come accade a between e among per l'Inglese o entre e parmi per il Francese). Si tratta quindi di una trasversalità che non necessariamente rappresenta un punto mediano tra diverse sfere del sapere, un percorso sul filo del rasoio che richiede maestria e umiltà, e che non può assolutamente essere intrapresa senza l'ausilio di un eclettismo sostenuto da conoscenze attinte da fonti certe e solide. La formazione stessa di Camporesi è trasversale, e inizia con gli studi di medicina prima di approdare alla filologia letteraria: la sua esperienza successiva risentirà costantemente di questa duplice predilezione, consentendo di inserire la sua opera tra i maggiori contributi del Novecento volti a sgretolare il muro medievale che ancora separa trivio e quadrivio.

Come dichiarava lui stesso, il suo metodo «non discende certo dall'idealismo crociano, ma dalla grande tradizione positivista, spesso trascurata, che ha avuto anche l'Italia: per fare dei nomi, D'Ancona, Novati, Ludovico Antonio Muratori. Non l'Italia delle parole insomma, ma quella dei fatti e dei documenti»8.

Un itinerario affascinante che si muove tra scienze del corpo e letteratura dunque, ma anche tra storia e cronaca, tra società e individuo, tra cultura materiale, religione, antropologia e mitografia, tra corpo e anima, tra arte e mestieri, tra cultura popolare e cultura d'élite. Anche se il tempo della sua indagine è focalizzato principalmente sull'arco storico tra medioevo ed età moderna, la prospettiva di lungo periodo gli permette di produrre una visione complessiva e globale della sfera intima dell'uomo europeo, quando non universale. Nella sua capacità di restituirci un trattato iconologico della vecchia società, attraverso le invarianze dei grandi temi della natura umana (l'alimentazione, la percezione del corpo, il laboratorio dei sensi), Camporesi riannoda i fili che permettono di scorgere una trama unitaria e di riconoscere la funzione maieutica svolta dal passato nei confronti del presente, secondo un processo non tanto di ricostruzione, quanto di svelamento.

Il suo interesse è sempre concentrato sulla materia, sia rappresentata nella dimensione corporea degli uomini - nella girandola della sua percezione, del suo governo e delle sue trasformazioni, un corpo che vive la realtà dei tempi, ma anche un corpo che sogna - sia delineata come sfondo nel quale le attività umane si svolgono, nel mondo della vita quotidiana di borgo, città e campagna, nella dialettica dei mestieri delle acque e della terra, nella geografia mentale di una sensibilità umana plasmata da una realtà dura e scabra, generatrice di ansie escatologiche, ombre, insicurezze, paure.

Nell'attraversare questo territorio smisurato e viscoso Camporesi non rifiuta nessuno strumento di indagine, proveniente dai più diversi ambiti scientifici. Tuttavia rimane sempre viva in lui l'esigenza di far parlare i testimoni, le sue fonti, i colti e gli incolti, gli scienziati e i 'filosofi', i cronisti, i diaristi, gli artigiani della penna e gli accademici togati, privilegiando quella tradizione scritta che egli stesso, come ricorda Elide Casali - la sua più stretta collaboratrice - definiva «non propriamente letteraria»9, ben consapevole che per comprendere appieno un'epoca è spesso necessario interrogare gli scrittori minori.

Memorabili sono certe sue pagine su grandi figure del passato, ritratti sulla scena del proprio ambiente contemporaneo: l'anziano Petrarca, ospite di un banchetto padano di corte, ossessionato dal cibo greve e delirante di una «tavola infernale fatta... su misura per carnivori sanguinari»10; Galileo invaghito della misteriosa idraulica vegetale della vite - distillatrice di nettare solare - che si rivela scienziato più propenso ad arricchire la cantina che la biblioteca; il medico scomunicato Fioravanti, ciarlatano per la scienza ufficiale, ma grande bonificatore e antesignano della moderna medicina.

Accanto a queste figure incontriamo però anche lo stuolo sterminato degli umili: «erbaroli», cerusici, levatrici, mammane, «mercuriali», «mulierculae», villani, norcini, pastori, capimastri, barcaioli, fonditori, mercatanti, che producevano sapere, spesso più di quanto non facessero i sapienti; cantastorie, cantimbanchi, «ciurmadori», accattoni, eremiti, preti di campagna, pellegrini, vagabondi, banditi, viaggiatori, osti, «guidoni»11, che producevano una parte considerevole di quella 'cultura', fissavano stili e maniere della vita di piazza e di festa, riversavano il sentimento religioso fuori dei sagrati.

Una mescolanza di generi e di voci, «la piazza universale di tutte le professioni del mondo», l'immenso calderone della vecchia società dalla quale, dopotutto, ci sentiamo oggi indebitamente lontani, ma il cui svelamento ci permette di guardare con più acutezza e onestà intellettuale al nostro presente, di accorgerci delle continuità con il passato e di comprenderne le trasformazioni.

L'originalità di Camporesi non si limita alla pur stupefacente capacità di raccogliere materiale documentale, sottraendolo all'oblio dei secoli: tale sforzo sarebbe vano se fosse disgiunto da un metodo stilistico idoneo a renderlo visibile e plausibile. Ed è qui che il grande ricercatore dà forse il suo maggiore contributo. Camporesi riteneva impossibile che la ricerca fosse divulgabile, addirittura concepibile, senza l'influsso di una forte tensione creativa, senza un approccio alla materia non soltanto passionale, ma anche inventivo.

Per lui la ricerca scientifica doveva inglobare creatività e fantasia, nel massimo rigore metodologico e pur tuttavia sotto la guida di «suggestioni» ed «emozioni». E da ciò si vede quanto grande fosse la distanza che lo separava da quell'arida scrittura accademica, spesso asettica o addirittura respingente, che tutti conoscono, alla cui mancanza di brillantezza e passione sovente ci si inchina in nome di una presunta scientificità.

La sua prosa, nitida e scintillante, affabulante e immaginifica - ma dalla cui esattezza e precisione traspare sempre lo sguardo severo del professore - permette allo studioso di farsi scrittore, inventore di percorsi e non semplice mediatore di un sapere altrimenti ristretto all'ambito della bibliografia erudita o, peggio, ad un circuito autoreferenziale. La sua scrittura è densa, magmatica, opulenta, pur senza indulgere all'autocompiacimento.

L'equilibrio, quasi impossibile, si realizza attraverso una scelta lessicale sorvegliatissima, che rifugge dalla piattezza come dalla concitazione, dall'uso sapiente della citazione, sempre perfettamente inserita nell'orizzonte narrativo, in un impasto sonoro prima ancora che discorsivo. La terminologia del passato, delle fonti, luccica nella pagina - come direbbe Roland Barthes12 - grazie alla scelta accurata dei due corni della parola: significato e significante.

Camporesi non rinnegò mai le sue origini di acuto filologo che gli permisero anzi di non perdere mai di vista le ragioni fondative del suo metodo di indagine, che miravano a far parlare i testi interrogati, a interrogarne la lingua, a svelarne le intime confessioni, per trasformarli in testimoni di un'epoca, spie di un pensiero profondo che traeva origine dalla materialità della vita e dalla corporeità degli uomini, attraverso pagine che sembravano scritte sempre sotto la dettatura dell'urgenza e del bisogno, dell'impellenza quotidiana e del «tempo breve», quasi a voler ricordare che la spiritualità delle forme nasce in primo luogo dalle necessità del corpo.

L'incontro di Camporesi con La scienza in cucina di Pellegrino Artusi avvenuto alla fine degli anni sessanta, rappresentò certamente una rottura rispetto ai canoni della ricerca letteraria a cui l'autore sembrava felicemente destinato. Eppure basta sfogliare le pagine del Camporesi ‘italianista' per rendersi conto che il suo peculiare punto di vista, quel suo guardare i testi in controluce rispetto alla loro letterarietà - destinato a divenire in seguito il suo inconfondibile marchio d'autore - fosse già presente e ben riconoscibile. Così scriveva, per esempio, nel presentare le Lettere inedite di Ludovico Di Breme nell'edizione einaudiana del 1966:

C'è un abisso tra la «plebe» dell'apollineo poeta delle Grazie, letterato «napoleonico» e umanista di vecchio stampo nonostante le pose eroiche e la ricercata eccentricità, che riservava alla povera gente unicamente «aratri, sacerdoti e carnefici», e la «società degli uomini» dibremiana; un abisso che sottolinea non solo il contrasto e la rottura fra i due amici ma anche gli ideali d'una generazione nuova che opera e soffre in Italia per l'Italia e che sceglierà l'esilio non per capriccio ma solo per ineluttabile necessità13.

Come si può vedere il Camporesi moralista e sagace giudice di quelle qualità umane, che presto o tardi la penna degli scrittori insensibilmente rivela, lascia già presagire in quale direzione intendesse procedere, a quale serrato confronto con la storia e con la realtà quotidiana avrebbe sottoposto quei testi che sarebbero poi diventati i suoi più fedeli compagni di viaggio nel rivisitare il passato, rilevando nel contempo la necessità di ridare voce a quella «povera gente» che rappresentava in fondo la stragrande maggioranza di una società altrimenti informe, la massa pauperistica d'ancien régime destinata a parlare soltanto attraverso intermediari raramente interessati a comprenderne davvero le ragioni e le aspirazioni, convinti com'erano che il suo mondo dovesse limitarsi all'aratro e la sua educazione alle pastorali della Chiesa, pronti per contro a reclamare la forca ogniqualvolta essa non fosse rimasta al suo posto (richiesta che a dire il vero le autorità del tempo erano sempre disposte a soddisfare con grande liberalità).

Dare voce agli esclusi, tuttavia, non rappresenterebbe in sé e per sé una novità negli studi storici e letterari, e rischierebbe di esaurirsi (come spesso è accaduto e accade) in un programma di ricerca destinato a non andare oltre una generica dichiarazione d'intenti, se non si riuscisse a ricreare il mondo in cui quegli uomini vivevano. Viene da pensare al difficile rapporto del Pierre Menard di Borges con il capolavoro di Cervantes:

Non volle comporre un altro Chisciotte - ciò che è facile - ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell'originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero - parola per parola e riga per riga - con quelle di Miguel de Cervantes14.

Per ricreare un mondo del passato, una realtà vissuta e tangibile, è necessario che quell'epoca venga riprodotta in vivo, che i protagonisti non siano costretti a parlare con la voce dei fantasmi, ma che sia possibile ricostruire il loro vissuto, il loro immaginario, penetrare in quelle officine dei sensi15 che producevano instancabilmente i materiali su cui la loro imago mundi si modellava e prendeva forma; è necessario che i cinque sensi ci facciano da guida, soprattutto quelli che la sensibilità moderna sta relegando ad un ruolo di appendici residuali di un corpo-macchina concepito per vivere in una società ‘audiovisiva', multimediale ma non plurisensoriale, che percepisce ormai soltanto con l'occhio e l'orecchio, dimenticando che la mente è anch'essa un organo di senso (la sesta coscienza sensoriale secondo il pensiero buddhista) in grado di esplorare la realtà circostante soltanto attraverso la mediazione di tutti gli altri cinque. Non si comprenderebbe perché, altrimenti, Camporesi abbia dedicato tante pagine dei suoi libri per ricordare attraverso quali complesse strategie la ‘vecchia società' utilizzasse la sfera olfattiva e gustativa per discriminare il puro dall'impuro, per inebriarsi degli effluvi paradisiaci - quell' 'odore di santità' che promanava dai corpi dei beati - e per tentare di convivere, all'opposto, con l'onnipresente invadenza della putredine - spia infallibile che permetteva di giudicare la corruzione non soltanto della materia, ma anche dello spirito - per costruire attraverso il riconoscimento delle qualità nascoste dei cibi quella gnoseologia indispensabile a istituire un corretto regimen sanitatis che tenesse in debito conto le mutevoli necessità non soltanto dell'alimentazione, ma anche delle differenti «complessioni» umane: Bertoldo sapeva bene che le «vivande gentili e delicate» che gli venivano propinate alla corte longobarda del re Alboino l'avrebbero condotto alla tomba, «essendo egli usato a mangiar cibi grossi e frutti selvatichi»16.

Camporesi era persuaso che il contatto sensoriale con la ruvidità del vivere fosse la strategia logica e necessaria attraverso cui l'epoca pre-moderna riusciva a convivere con la fatica, il dolore, la malattia e la morte, con quella familiarità che oggi ci sembra così sorprendente - impegnati come siamo nell'ostinato tentativo di rimuovere le cause della naturale sofferenza dalla realtà materiale e psichica della nostra esistenza - e riteneva che quel ‘teatro delle crudeltà', quell'inferno terrestre con cui gli uomini del passato si cimentavano (incessantemente «costretti a "rimirare tanti rivi di sangue, tante cataste di ossa, tanti cumuli di cadaveri", in un'Europa dove le guerre, le carestie, la fame producevano con inesauribile, spietata fertilità "tanta mendicità vagabonda", dove era spettacolo comune vedere «per tutto, il vulgo famelico marcire"»17) dovesse essere chiaramente mostrato, riportato alla luce anche a costo di ferire la sensibilità del lettore moderno, perseguendo una sorta di pedagogia della crudeltà (diceva di ispirarsi a Brecht piuttosto che ad Artaud), necessaria per comprendere quel mondo. Questo era lo spirito con cui mi indirizzò verso la «letteratura del patibolo», vasta produzione dei secoli xvii e xviii nella quale si rispecchiava una morbosa curiosità per le gesta criminali, intimamente connessa con la terribile liturgia punitiva che si celebrava intorno ai palchi dove veniva somministrata, a pubblico beneficio, la pena capitale18. L'incredibile ridda di voci che scaturiva da questa sinistra contrada della letteratura e della società - in cui le istanze repressive (ma anche trucemente educative) del potere, con tutto il suo mortificante apparato di flagelli, si mescolavano con il fremito di oscuro piacere proveniente da una piazza crudele e invasata - ci restituiscono l'immagine poco lusinghiera di una società accomunata da un cupo desiderio di atroce festività, che amava lo spargimento di sangue e che nello «splendore dei supplizi»19 trovava un'acrobatica sintesi fra ordine quaresimale e inversione carnevalesca; ma al tempo stesso ci mostrano una rappresentazione inquieta di quel «tremendo passo» che spalancava le porte dell'inferno alle anime dannate: per questo motivo era così importante ascoltare le ultime parole dei condannati, i loro appelli al pubblico (stampati poi a tambur battente e meglio noti col nome di «lamenti»), saggiare di persona il «pentimento» di quegli sventurati (poco importava se estorto con i tormenti) in grado di riabilitare un'intera vita di nefandezze e di peccati col supremo sacrificio sul patibolo di quel corpo ribelle necessario per redimere l'anima dalla dannazione eterna.

Date le premesse del suo metodo appare evidente che Camporesi, durante l'intero arco delle sue ricerche, non poteva fare a meno di scrutare nel «tristo buco» (Inf. xxxii, 2) per dare un senso alla sua poetica del 'corporeo' nell'analisi letteraria: dopotutto, come sospettavano i dottori e i predicatori del xvii secolo, la fucina infernale era la «casa dell'eternità» in cui la maggioranza degli uomini era destinata ad abitare, essendo «il numero dei dannati... assai superiore a quello dei beati»20.

Dell'inferno medievale di Dante e dei suoi precursori Camporesi ne ha seguito le trasformazioni iconologiche nel corso dei secoli successivi, indagando sul suo ruolo di incubatore «dell'angoscia e delle paure tribali proiettate nelle buie sale delle caverne dell'anima».

Nel corso dei secoli l'inferno ha puntualmente registrato il mutamento della scena sociale modificando i propri scenari, ritoccando i propri statuti. Spazio 'componibile', ha allestito rappresentazioni cangianti, innalzando fondali a sorpresa, mutato scene, ha travestito i suoi terrori, riverniciato i suoi mostri, svuotato i magazzini, rifondato le sue paure, reinventato i suoi demoni, la sua fauna, la sua flora; ha rimisurato i suoi confini, ristudiato il sistema idraulico, riprogettato l'impianto urbanistico, i sistemi di aerazione e di drenaggio, riconvertito le sue officine, riformato i suoi lazzaretti, perfezionato i suoi tormenti, licenziato funzionari inutili o in sovrannumero, ripensato gli organici, abbattuto simulacri vani e liquidato obsolete mostruosità allegoriche, allargato e ristretto i suoi spazi accogliendo nuove, benemerite categorie del peccato21.

Dalle sette piaghe infernali della Visione di S. Paolo (neve, ghiaccio, fuoco, sangue, serpenti, folgore e fetore)22, dall'inferno-caos degli inferni pre-danteschi, caratterizzati sovente come «città del rumore e del fetore» dove i diavoli «metallurgici infaticabili… martellano senza un attimo di tregua» nell'inferno-officina del dolore - «città sorprendentemente moderna, invivibile, contaminata, acusticamente micidiale»23 - passando per la visione profondamente mutata del grandioso edificio dantesco, rigorosamente geometrico e controllato, nel quale ogni residuo di caos e di marasma vengono cancellati e i dannati separati per affinità di peccato, Camporesi s'inabissa nell'allucinante inferno barocco, vera e propria bolgia specializzata nei tormenti dei sensi sul modello dei feroci metodi patibolari a cui si accennava, e lo fa ripercorrendo soprattutto la letteratura dei Padri quaresimalisti e della pubblicistica religiosa della Chiesa post-tridentina, equivoci lasciti spirituali della prima modernità.

Scomparsi la neve e il ghiaccio, quasi aboliti i diavoli, manovalanza inferica ritenuta ormai in esubero, scomparsi i mostri, le altre allegorie e gli 'effetti speciali', restano il fuoco e la puzza, o meglio, soltanto il fuoco che prodigiosamente riesce ad esprimere tutti i tormenti conosciuti, gelo incluso,un fuoco nero, denso, grasso e fetido, implacabile trasformatore di carni e umori in una laida melassa e a sua volta emanatore del puzzo di una cloaca senza via di sfogo.

Il puteus abyssi dell'inferno barocco ripristina il caos e il disordine, riconduce i dannati alla condizione interclassista della pena, dove poveri e ricchi, fini intellettuali e laidi villani sono pigiati insieme, come in un torchio, in un allucinante cubo di quattro miglia di spigolo, capace tuttavia di contenere fino a ottocento miliardi di dannati, stipati e costretti uno fra le braccia dell'altro con sei piedi quadrati pro capite, avvinti «bocca a bocca», il ricco a inalare il fetore e le sanie del povero, il miserabile a subire la smaniante claustrofobia del nobile24. È evidente che un simile puzzolente contenitore andava ben oltre la cinquecentesca visione di Teresa d'Avila nella quale l'inferno si limitava ad evocare uno scomodo sepolcro:

Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com'ero in quella specie di buco scavato nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocazione. Non c'era luce, ma tenebre fittissime25.

Progettato per atterrire la «nobiltà dilicata», usa ad abitare in lussuose dimore, ad incedere in trionfanti saloni e a svagarsi in vaste tenute, un inferno di questo genere, con la prospettiva di simili immondi abbracciamenti, costituiva sicuramente un deterrente assai più efficace di qualsiasi altra minaccia.

Un simile inferno, carcere ed ospedale insieme, reca in sé l'idea tutta barocca della pena inflitta dai propri simili, dove ognuno in quelle «fetide fogne» (Paolo Segneri26) «si fa dell'altro carnefice, i figli tormentano i padri, le figlie lacerano le madri, i fratelli squarciano le sorelle, dalle mogli sono sbranati i mariti, da i servi tenagliati i padroni»27 (sono parole del quaresimalista Romolo Marchelli), prospettando in sovrapprezzo l'ammorbante e laida promiscuità con la marea umana pauperistica, piagata, pidocchiosa e nauseabonda, che riempiva i lazzaretti e le prigioni della vecchia società, e che rappresentava il rimosso di quassù destinato a diventare incubo eterno, «sotterraneo macello a ciclo continuo»28.

Le condizioni igieniche delle città d'ancien régime nascondevano nei propri vicoli altrettanti inferni quotidiani che hanno indotto Camporesi ad occuparsi anche di quei dannati in vita, di coloro (ed erano i più) che praticavano mestieri ignobili e fetidi29. Soltanto nel primo Settecento i medici cominciarono ad occuparsi delle malattie professionali e ad accorgersi, a guardare con altri occhi, le condizioni di lavoro dei beccai, dei conciatori, dei tintori, dei follatori, dei minatori dei lavoranti nelle saline - solo per fare qualche esempio - a comprendere che anche i mestieri più puliti erano sporchi.

L'inferno bianco in cui erano immersi i mugnai è per noi oggi difficilmente immaginabile. Con l'udito devastato dal frastuono continuo delle macine, immersi perennemente in una nuvola di polvere bianca, «sordi e balordi come asini», costretti a vivere in uno spazio umido e angusto, in una specie di incubo biancastro, in un «luogo infelice e doloroso», soffrivano «per l'acque vicine e molte volte infette, mille umidità di testa, mille doglie di capo». «Morivano» secondo Tomaso Garzoni «qualche volta al primo anno che cominciano a lavorare ne i molini per la corruzione che porta seco il luogo...»30.

Le città stesse, del resto, apparivano ai contemporanei come fogne a cielo aperto, immerse in fangosi liquami d'inverno e ammorbate in estate da insopportabili esalazioni che toglievano il respiro. A partire dal secondo Settecento si cominciò a sospettare che l'inferno, forse, non fosse più racchiuso nel mondo sotterraneo

ma aperto, sotto gli occhi di tutti, in superficie; non nell'abisso ma nel cuore della città, nella fogna abitata dai vivi, ventre aperto, corpo squarciato dal quale colavano i sughi infetti del male sociale. La letteratura europea dell'Ottocento s'immerse in questo scenario sconvolgente. La «trista conca», la «palude che il gran puzzo spira», il «tristo fiato» erano fuori della porta di casa, nell'inferno dei quartieri poveri delle metropoli, nella Londra di Charles Dickens o nella Parigi di Eugène Sue31.

Oggi l'inferno del degrado urbano, della città cloaca, ha cambiato regime: si presenta sostanzialmente depurato dai residui animali solo per essere sostituito dalla onnipresenza e dal frastuono del traffico, con l'aria ammorbata dagli effluvi degli idrocarburi e i terreni irrorati dai veleni industriali. Camporesi sostiene che dobbiamo rassegnarci ad entrare nel «post-inferno», una sorta di 'non luogo' che ha perduto la funzione originaria. Se perfino un teologo illustre come Hans Urs von Balthasar ha dichiarato alcuni anni fa che «l'inferno esiste, ma potrebbe anche esser vuoto», ciò vuol dire che anche la Chiesa «sta allineandosi con le ipotesi visionarie e metafisiche della letteratura contemporanea»32, come quella di Giorgio Manganelli, viandante meditabondo sotto un cielo vuoto di dei, attraverso una «palude definitiva»: «dunque non è inferno, o forse è inferno, ma allora era ed è inferno, sempre. Prima e dopo la condizione che diciamo di vita»33. Eppure sopravvive, in questa catastrofe dell'inferno classico, l'esercizio meditativo, 'l'esercizio dell'inferno', che consiste nel «vedere con la vista dell'immaginazione, la lunghezza, la larghezza e la profondità dell'inferno», come suggeriva Ignazio di Loyola, a figurarsi con la mente «quegli ingenti fuochi, e le anime come dentro corpi infuocati»34, o come raccomandava Francesco di Sales, prefigurando la tipica sensibilità barocca per il miasma:

Immaginate una città tenebrosa, tutta ardente di zolfo e di fetida pece, piena di cittadini che non ne possono uscire... I dannati sono entro l'abisso infernale come entro una città sciagurata nella quale soffrono tormenti indicibili in tutti i sensi e in tutte le membra...35

In fondo, pur meditato in un'atmosfera più rarefatta, è lo stesso esercizio che Manganelli raccomanda ai lettori contemporanei.

Immaginatevi un universo che sia tutto, dico tutto, pervaso dall'inferno… L'inferno non ha confini, giacché esso è dovunque, ma non è il dovunque; nessuno deve transitare alcunché, o cercare aditi e accessi, giacché sarà l'inferno a cercare, trovare e avvolgere l'infernìcolo36.

Rarefatto, ubiquo, disincarnato e impalpabile, forse vuoto ma avvolgente come un lepido sudario, angoscioso doppio delle nostre angustie quotidiane, l'inferno ha mutato radicalmente registro, ha svuotato le sue immonde bolge dalla pletora di dannati dopo aver licenziato i diavoli addetti alla sorveglianza, ha insomma ristrutturato l'azienda, senza per altro comunicare l'indirizzo al registro delle imprese, tanto che ormai non si sa come raggiungerlo poiché le «mappe» in circolazione, osserva a ragione Camporesi, risultano «ormai illeggibili»37. La persistente necessità di immaginarlo e riconoscerne una funzione nasce forse da un irriducibile fantasma che si aggira nella società ‘post-moderna' (è difficile dire se il post-inferno di cui parla Camporesi sia l'effetto o non piuttosto la causa di una simile incerta definizione), quello dell'eternità della pena. Al peccatore di oggi potrebbero essere proposti gli esercizi di immaginazione che un predicatore del xvii secolo prescriveva ai suoi assistiti.

Col pensier tuo taglia, o peccatore, fuori da' secoli eterni cento milla anni, anzi millioni di milliaia d'anni, pensi tu d'aver levato qualche cosa dall'eternità ? Niente hai levato. Torna a separarne di nuovo millioni sopra milliaia più di quelli che hai pensati, e credi tu d'aver perciò il fine dell'eternità delle pene dell'inferno ritrovato? Non l'hai ritrovato. Leva di nuovo tanti millioni di secoli quante sono le foglie di tutti gl'albori e di tutte l'erbe della terra, ti pare, o ti persuadi tu d'aver levato dall'eternità un sol momento?... Si riempia tutta la terra di sottilissima arena, in modo che dalla terra al cielo non si trovi altro che minuta polvere, et ogni volta che cento millioni di milliaia d'anni saranno passati, venga un augello et un sol granello se ne porti via, e quando si levarà dalla terra l'ultimo grano di quella moltitudine grandissima d'arena...all'ora forniranno li vostri dolori e le vostre pene che patite nell'inferno... nondimeno, non ancora sarà il fine, non il mezo, non il principio dell'eternità38.

Svaniti i classici peccatori, in una società dove «la paura delle calorie in eccesso è ormai più forte del terrore della fiammeggiante, infame cucina infernale» - nonostante la perenne insidia chimica dell'industria alimentare - orfana ormai dell'antico connubio orale-genitale, per via del 'sesso sicuro', deodorizzata e insieme convivente con ossido di carbonio e anidride solforosa, «l'inferno dei cinque sensi non è più laggiù sepolto in corde terrae», conclude Camporesi, «e se si è trasferito quassù, fra noi, neppure ce ne accorgiamo»39.

Gli scrittori dei giorni nostri si sono soffermati spesso sugli aspetti paradossali di una tale sinistra convivenza. Il cronista e viaggiatore Buzzati, ad esempio, dopo essere penetrato all'inferno attraverso uno «sportellino», una «porticina» scoperta casualmente duranti gli scavi della metropolitana milanese, crede di essere riemerso in un quartiere a lui poco noto della stessa città.

In quel luogo non c'è nulla, a prima vista, di infernale e diabolico. Tutto anzi assomiglia alle nostre esperienze quotidiane, più ancora: non c'è «nessuna differenza». Uno strano inferno in cui gli uomini hanno «la medesima compattezza corporea, i medesimi vestiti che si vedono da noi tutti i giorni», le stesse facce «livide e stanche». Sotto un «cielo grigio e bituminoso» gli abitanti dell'inferno sono intrappolati in un «gigantesco ingorgo» di automobili «serrate le une sulle altre», «con le mani sul volante, immobili» e con una «ottusa atonia come per effetto di stupefacenti» dipinta sulle «facce pallide». «Pallidi, svuotati, castigati e vinti. E più nessuna speranza»40.

I tormenti vengono somministrati da belle ed eleganti diavolesse «appostate ai quadri di comando di strane macchine», tra «leve», «quadranti», «manopole» e «bottoni» e consistono in «accelerazioni» in grado di esacerbare, con incalzante progressione, la frenesia e l'ansia di coloro che ne subiscono il trattamento.

Dall'alto della centrale operativa, attraverso ampie vetrate, si può dominare con lo sguardo la città

fino alle estreme lontananze. Declinando la opaca e livida luce del giorno, si erano illuminate le finestre. Milano, Detroit, Düsseldorf, Parigi, Praga, mescolate insieme in un delirio di pinnacoli e di abissi, sfolgoravano, e in questa immensa coppa di luce si agitavano gli uomini, questi microbi, incalzati dal galoppo del tempo. La spaventosa, la orgogliosa macchina da loro stessa costruita girava macinandoli ed essi non fuggivano anzi facevano ressa per buttarsi nel cavo degli ingranaggi41.

Una normalissima città dei nostri giorni, avvolta nello smog e nel frastuono del traffico, nella quale non vi è più traccia del fiammeggiante abisso e dove il fuoco, piuttosto, si è trasferito «negli occhi di quegli sciagurati»42, da cui traspare come la spia di una struggente e intima combustione, e che permette di riconoscere a prima vista quei reprobi che «l'inferno se lo portano dentro fin da bambini»43.

«Tutto è inutile», sospira sconsolato il Gran Kan nell'ultima pagina de Le città invisibili di Calvino, «se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente»44. Ma con umile coraggio Marco Polo replica e dissente ricordandogli che

l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno quello è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio45.

A questo secondo metodo mi pare che possa essere ricondotta la lezione di Piero Camporesi (autentico Marco Polo delle città d'ancien régime), a quella ricerca incessante e continua della testimonianza umana, profonda e dolente, a cui dava voce e «spazio», riscattando in tal modo ansie, fatiche e pene di tutti coloro ai quali «la sensibilità moderna..., condizionata - come la critica letteraria - dall'appiattimento della prospettiva storica»46 stenta a restituire un volto credibile, nella difficoltà di ricreare attorno a loro «l'atmosfera e l'ambiente delle città del passato» in cui vivevano, fossero state anche le contrade dell'inferno.





NOTE


(Le date indicate tra parentesi dopo il titolo dell'opera si riferiscono agli anni in cui queste sono state pubblicate o composte)




1 - Piero Camporesi, Carnevale, cuccagna e giuochi di villa (Analisi e documenti), in «Studi e problemi di critica testuale», x, 1975, pp. 57-97. Il testo è stato successivamente ripubblicato in Id., Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978, poi Milano, Garzanti, 2000. Le citazioni sono tratte da quest'ultima edizione.

2 - Camporesi, Il paese della fame, cit., p. 29.

3 - Ivi, p. 30.

4 - Giulio Cesare Croce, La solenne e trionfante entrata dello squaquaratissimo et sloffeggiantissimo Signor Carnevale in questa città, Bologna, B. Cochi, s.a., in Affanni e canzoni del padre di Bertoldo, a cura di M. Dursi, Bologna, Alfa ed., 1966, p. 119.

5 - Anonimo, Processo e confessione del squaquarante Carnevael, s.l.a. e n.t. [secolo XVI], c.2.v.

6 - Camporesi, Il Paese della fame, cit., p. 41.

7 - Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene (1891-1910), introduzione e note di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1970.

8 - Pronto in tavola l'alfabeto della storia, intervista di Cesare Medail a Piero Camporesi, in «Corriere della Sera», 24 gennaio 1981.

9 - Elide Casali (a cura di), «Academico di nulla Academia». Saggi su Piero Camporesi, Bologna, Bononia University Press, 2006, p. 9.

10 - Camporesi, Le vie del latte dalla Padania alla steppa, Milano, Garzanti, p. 77.

11 - Il riferimento obbligato è a Piero Camporesi (a cura di), Il libro dei vagabondi, Milano, Garzanti, 2003. Prima edizione, Torino, Einaudi, 1973.

12 - Roland Barthes, Il piacere del testo (1973), Torino, Einaudi, 1975, p. 41

13 - Ludovico Di Breme, Lettere, a cura di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1966, p. xxiii.

14 - Jorge Luis Borges, Finzioni (1944), in Tutte le opere, Milano, Mondadori, 19853, vol. i, pp. 652-53.

15 - Camporesi, Le officine dei sensi, Milano, Garzanti, 1985.

16 - Giulio Cesare Croce, Le astuzie di Bertoldo e le semplicità di Bertoldino (1608), a cura di Piero Camporesi, Milano, Garzanti, 1993, p. 148.

17 - Camporesi, Odori e sapori, introduzione a Alain Corbin, Storia sociale degli odori. xviii e xix secolo (1982), Milano, Mondadori, 1983, p. xv. Le citazioni interne sono di Paolo Segneri.

18 - Per una sommaria ricognizione intorno a questo particolare genere letterario: Alberto Natale, La piazza delle crudeltà e delle meraviglie. Giulio Cesare Croce e la letteratura del 'sensazionale' e del 'prodigioso', in Elide Casali e Bruno Capaci (a cura di), La festa del mondo rovesciato. Giulio Cesare Croce e il carnevalesco, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 177-195.

19 - Lionello Puppi, Lo splendore dei supplizi. Liturgia delle esecuzioni capitali e iconografia del martirio nell'arte europea dal xxii al xix secolo, Milano, Berenice, 1990.

20 - Geoges Minois, Piccola storia dell'inferno (1994), Bologna, Il Mulino, 1995, p. 100. Suoi sono gli spunti che ho utilizzato in seguito per ripercorrere le ‘meditazioni' infernali di santa Teresa d'Avila e di san Francesco di Sales, ma anche la spinta a rileggere in tale chiave Dino Buzzati e Italo Calvino.

21 - Camporesi, La casa dell'eternità, Milano, Garzanti, 1987, pp. 17-18.

22 - Pasquale Villari, Antiche leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia, Pisa, Nistri 1865, ristampa anastatica Bologna, Forni, 1979, p. 77.

23 - Camporesi, La casa dell'eternità, cit., p. 19.

24 - Ercole Mattioli, S.J. (1622-1710), La pietà illustrata. Accademie sacre, dove s'erudisce in ordine ad essa, un giovane nobile, Parma, A. Pazzoni e P. Monti, 1694, parte i, p. 230, in Piero Camporesi, La casa dell'eternità, cit., p. 103.

25 - S. Teresa d'Avila, Libro della mia vita (1565), Milano, Edizioni Paoline, 20006, pp. 362-63.

26 - Paolo Segneri, Quaresimale, Firenze, L. Ciardetti, 1829, t. i, p. 452.

27 - Camporesi, La casa dell'eternità, cit., p. 121. Il brano è tratto da Romolo Marchelli, Prediche quaresimali, Venezia, G. Storti, 1682, p. 144.

28 - Ibid.

29 - Camporesi, La miniera del mondo, Milano, Il Saggiatore-Mondadori, 1990, pp. 188-232. Le citazioni interne sono di Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, G.B. Somasco, 1587, p. 553.

30 - Camporesi, Odori e sapori, cit., p. xxxvi.

31 - Camporesi, La miniera del mondo, cit., p. 188.

32 - Camporesi, Il governo del corpo, Milano, Garzanti, 1995, p. 42.

33 - Giorgio Manganelli, Dall'inferno, Milano, Rizzoli, 1985, p. 11.

34 - S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali (1548), con il commento di Louis Lallemant, Roma, Jaka Book-La Civiltà Cattolica, 2006, pp. 79-80.

35 - S. Francesco di Sales (1609), Introduzione alla vita devota, (settima meditazione: dell'Inferno), Milano, Rizzoli, 1986, p. 93.

36 - Giorgio Manganelli, Dall'inferno, cit., pp. 112-113, brano riportato da Piero Camporesi in Il governo del corpo, cit. p. 44.

37 - Camporesi, Il governo del corpo, cit., p. 90.

38 - Carlo Verri da Cremona, Ricordi per essercitar il caritativo officio d'aiutar a Cristianamente morire quei meschini che sono dalla giustitia condannati a morte. Con l'aggiunta d'alcuni dubbi spettanti allo stato e salvezza di detti giustitiati dopo la loro morte, in Milano, per Federico Agnelli, 1672, pp. 60-62.

39 - Camporesi, Il governo del corpo, cit., pp. 92-93.

40 - Dino Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo (1966), in Il Colombre e altri cinquanta racconti, Milano, Mondadori, 1986, pp. 380-449. Le citazioni si leggono rispettivamente alle pp. 386, 397, 401-403.

41 - Ivi, p. 408.

42 - Ivi, p. 397.

43 - Ivi, p. 408.

44 - Italo Calvino, Le città invisibili (1972), in Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, vol. ii, p. 497.

45 - Ivi, pp. 497-498.

46 - Camporesi, Odori e sapori, cit., p. xxii.



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