La piazza delle crudeltà e delle meraviglie.

Giulio Cesare Croce e la letteratura del 'sensazionale' e del 'prodigioso'


di Alberto Natale

Cfr. La piazza delle crudeltà e delle meraviglie. Giulio Cesare Croce e la letteratura del 'sensazionale' e del 'prodigioso', in La festa del mondo rovesciato. Giulio Cesare Croce e il carnevalesco, a cura di Elide Casali e Bruno Capaci, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 177-195.



Nella seconda metà del Cinquecento, all'epoca della nascita di Giulio Cesare Croce, iniziò a diffondersi in tutta Europa un particolare genere letterario, finora poco studiato, a metà strada fra il resoconto giornalistico (di per sé allora inesistente) e la narrazione fantastica: gli argomenti erano attinti per un verso dalla cronaca nera, costantemente fusa con la "letteratura del patibolo" (le relazioni degli "spettacoli di giustizia", con il racconto delle condanne più esemplari) e per l'altro dal mondo caro all'imagerie folklorica, popolato da mostri e prodigi. Si trattò di un filone ben noto al cantastorie persicetano e che influenzò in modo significativo la sua produzione.
Quando, sulla scorta di alcune note ne La maschera di Bertoldo e grazie alle segnalazioni dello stesso Piero Camporesi cominciai ad addentrarmi in questa singolare letteratura, disseminata in centinaia di miscellanee, ne fui letteralmente travolto: inizialmente per la smisurata quantità di materiale, in seguito e più duramente, a causa dell'impatto emotivo provocato dal ritrovarmi, potrei dire proprio di persona, al centro della piazza delle crudeltà e delle meraviglie, direttamente vissuta nella carne e nel sangue dalla società d'ancien régime.

L'armamentario del 'meraviglioso' (inteso come pluralità semantica evocante nello stesso tempo il raccapriccio, la compassione, lo stupore, lo straordinario e il prodigio)1 veniva dispiegato in narrazioni generalmente in prosa e più di rado in versi (nella specifica vulgata del "lamento"), annunciate sotto forma di "successi", "ragguagli" e "relazioni nuovissime".
Nel frontespizio la notizia veniva 'gridata' così come avrebbero poi fatto gli strilloni per venderla2: il fatto era "maraviglioso et inaudito", "tremendo", "spaventevole", "orrendo", "barbaro", "inumano", "crudelissimo"; gli attori erano "infamissimi banditi", "assassini di strada", "ebrei scelerati", "malvagi stregoni", ladri "sacrileghi" e in genere tutti coloro che erano stati autori di "enormi delitti" o protagonisti di "casi orrendi" che suscitavano "tremore e terrore".
"Maravigliosi e orrendi prodigi", "orribili mostri", "tremendissimi casi" erano i termini maggiormente ricorrenti, per contro, sul versante dei fatti soprannaturali, ai quali si possono aggiungere le relazioni degli "orribili e spaventosi terremoti", degli "strani e formidalissimi temporali", degli "spaventosi temperii e inondazioni", che pur facendo parte del mondo naturale acquisivano, inseriti in questa letteratura, i connotati del prodigio e venivano trattati con le medesime scelte di lessico e di finalità propagandistiche di cui si parlerà in seguito.
Tutto questo gridare, certamente sopra le righe, ma rispondente ai gusti del pubblico "illetterato", poteva scandalizzare i benpensanti: tra questi Carlo Gozzi, che quando ormai la stagione degli "avvisi" volgeva al termine, intingeva la penna nel disprezzo, burlandosi di una produzione fatta di fogli volanti "imbrattati"

di relazion da fare il gozzo pieno
a' mascalzoni affamati e assetati,
che con lor voci chiocce van gridando
seguita la sentenza o dato il bando.3

Le grida erano ovunque: nel resoconto delle truci imprese criminali da cui emergevano con la voce delle loro vittime, nella piazza gremita che assisteva inebriata di vendetta e di rancori, percorsa da sentimenti contrastanti di giubilo, raccapriccio e pena allo "spettacolo di giustizia" dove il condannato subiva un supplizio senza risparmio di orrore e di sangue, portato prima in giro per la città su un carro e mutilato delle mani, poi "strascinato a coda di cavallo", "arrotato", "mazzolato", "scannato" e infine "squartato", impiccato e poi bruciato, in un crescendo di tecniche diverse, spesso mescolate insieme.
Ad esse si univano appunto le grida dei venditori di relazioni analoghe, autentici scoop di protogiornalismo che spesso riguardavano proprio il protagonista sul palco, e nelle quali era contenuto il "lamento fatto avanti la sua morte" che lo stesso condannato sembrava aver consegnato alle stamperie con rara tempestività.
I casi e le vicende venivano stampati su fogli volanti o, più spesso, su due o quattro carte, quasi mai numerate, in cui il recto della prima carta era interamente dedicato al frontespizio, che costituiva, in un tempo, il titolo, il sommario e l'occhiello dei moderni articoli giornalistici. La notizia era già presentata in forma sensazionale: si annunciavano "maravigliosi successi di grandissima meraviglia e stupore", si avvertiva il lettore che le storie narrate avrebbero provocato "non poco timore e compassione", si assicurava che il "caso" avrebbe sovrastato la fama dei racconti già conosciuti con premesse stereotipate di questo tenore:

delli casi meravigliosi che a tempi nostri siano successi, non crederò che il maggiore e più meraviglioso di questo siasi mai inteso ... con terrore e spavento succeduto.4

La stereotipia del linguaggio utilizzato nelle presentazioni e nelle descrizioni è il dato più significativo sotto il profilo della comunicazione, mentre dal punto di vista retorico si insiste, facendo sorgere qualche sospetto, nel sottolineare la verità e la novità delle vicende: espressioni come "verissima relazione", "vero ritratto", "nuovo e distinto ragguaglio", "esatta relazione", "vera e real relazione", "vera effigie", si affollano nei frontespizi con cadenze inesorabili. La notizia è "vera", "distintissima", "straordinaria", "veridica", "nuova e verissima", "novissima e distinta", "nuova, vera e distinta", "ultimamente seguita"; e si potrebbe continuare a lungo con l'elenco delle "cose verissime e di gran stupore" pubblicate "per dar funesto esempio agli altri", per istruire gli animi attraverso il "pubblico spettacolo" e la "morte infamissima" dei malfattori.
Anche l'apparizione di mostri e gli avvenimenti prodigiosi, le battaglie profetiche che si svolgevano nei cieli, le stupefacenti eclissi, i funestissimi terremoti e le "gragnuole" devastanti, partecipavano alla stessa sfera del castigo divino che li proiettava nel cielo e li scagliava sulla terra come monito "per il popolaccio insolente", "avvisi di novità" elargiti come segni ed esempi tremendi da una divinità giunta al limite di sopportazione per gli "enormi eccessi" degli uomini, "nauseata" per gli "insoffribili peccati" che stavano spingendo la terra verso la rovina.

Giulio Cesare Croce partecipò al desiderio collettivo del meraviglioso, come appare evidente nella sua Cosmografia poetica,5 mostrandosi "bramoso di veder di parte in parte" il mondo "in ogni via", tra "strane genti", "strani costumi e mostri spaventosi", sognando di incontrare "sciopodi", "sirene", ciclopi e "trogloditi. Ma consapevole della "dabbenaggine" umana preferì comporre caricature dell'universo prodigioso ed esercitarsi nelle parodie degli Avisi burleschi di più città. Venuti di qua, di là, di su e di giù, da diversi luochi del mondo, facendosi gioco della credulità popolare con abbondanza di truismi e nonsensi.

In Milano, un corriero nel farsi cavare i stivali li è restato le gambe attaccate a le ginochie, e non può caminare se non mete i piedi in terra...

In Mantova si levò un vento si oribile che portò in aria più volte un mezo folio di carta...

In Udine dicono che s'ascose il sole e stette così fin che passorno le nuvole...

In Reggio, dicono esser nato un fanciullo che ha il capo fra l'horechie e la bocca sotto il naso...

In Terviso, è nato un fanciulo che è tanto longo dal mezzo in su quanto dal mezzo in giù, e dicono se vol mangiare bisogna che apra la bocca e conchiudon che camperà fin alla morte.6

I modelli parodiati dovevano essere quantomeno assai simili ad alcune relazioni che riscossero successo in tutta Europa come la Verissima relazione venuta da Lisbona dove s'intende la nascita di un putto di bruttissima figura tutto armato, con una croce nel petto,7 oppure la Narrazione delli maravigliosi prodigi apparsi sulla città di Baiona in Francia, dove s'intende li stupendi segni veduti in aria, con il nascimento d'un figliuolo ch'aveva trentatre occhi e visse trentatre giorni, parlò tre sole parole di vera e gran considerazione.8
Nella categoria dello stravagante, imbevuti, come annotava Camporesi "d'una forte carica lunatica e di festività cuccagnense" vanno invece considerati gli Avisi burleschi venuti da diverse parti del mondo. Cose notabilissime e degne da essere intese:

Il mese passato passò una pulce vestita alla cipriotta, sopra un cavallo di legno...

Si è avuto aviso che l'armata del re di bastoni s'è acampata sotto la città delle cavalette...

Si è avuto notizia chi fu il primo che facesse la salsa verde su i ranocchi fritti.9

Fu tuttavia nella letteratura del patibolo e nella cronaca nera che Croce trovò maggiore ispirazione e materiale di pubblicazione, una letteratura che si proponeva in generale con finalità morali piuttosto evidenti, scarna nella sua presentazione, ridondante nelle espressioni ad effetto, martellante nella sua lugubre pedagogia.
Calata in un'escatologia che vedeva prossima "la rovina del mondo",10 in una società invecchiata e dominata dalla sensazione dello sfacelo delle cose, la letteratura del sensazionale e del prodigioso si caratterizza come uno strumento significativo di propaganda utilizzato a piene mani dai poteri politici e religiosi, probabilmente da essi direttamente ispirata, quando non materialmente prodotta. Ciò spiegherebbe la natura quasi esclusivamente anonima delle pubblicazioni, tranne poche eccezioni, redazioni di semplici cronisti intorno ad avvenimenti che sembrano ispirati direttamente da Dio, in risposta al comportamento umano soggiacente all'influsso diabolico.
Al resoconto minuzioso dei più atroci misfatti - che venivano compiuti a danno del quieto vivere e delle istituzioni sovrane nel dispregio della sacralità ecclesiale e della "illibata" qualità della fede cattolica - seguiva puntualmente la descrizione del rituale "spettacolo di giustizia", in cui il condannato era chiamato a ricoprire, nel bene e nel male, il ruolo di protagonista. Eroe negativo di infami gesta, cavaliere nero del crimine, nonché agente satanico, il reo, incarcerato e avvinto in ceppi, si accingeva a toccare con mano il risultato della sua opera, il ribaltamento dei ruoli, l'inversione tra carnefice e vittima. 
Ovunque, nelle tetre e sinistre pagine di questa letteratura di consumo, si respira odore di sangue e di incenso, tra supplizi, grida, sfrigolio di carni bruciate, rumore di ossa infrante; si odono voci salmodianti, lugubri litanie e strazianti lamenti, nella sceneggiatura di un preciso e attento rito sacrificale, il cui scopo era punire e prevenire, distruggere e rafforzare, recidere e ricomporre.

È il momento dell'ideologia, della riaffermazione della vera giustizia, stanca di subire l'onta della perversità umana, spesso indicata come hybris insensata, diabolico peccato di orgoglio che rifiuta di tenere in giusto conto la subalternità dell'uomo rispetto ai disegni divini. Il pensiero controriformista fa valere tutte le sue regole e chiede a tutti i suoi tributi: la giustizia umana, ispirata direttamente da un Dio vendicatore e sanguinario, si appresta in tal modo a far valere leggi che non potrebbero rimanere inapplicate, a somministrare patimenti e morte già stabiliti e perciò incontestabili. Vengono sanciti il procedere inarrestabile della giustizia, l'ineluttabilità della pena, il destino già scritto del malfattore quando ancora "spensierato" e indisturbato andava macchiandosi dei più turpi e orrendi crimini.
Si stagliano, in questo contesto, le figure dei confessori appartenenti alle compagnie di giustizia, i manipoli di padri "confortatori", armati di crocifisso e nascosti da inquietanti cappucci e "cappellacci": appassionati e caritatevoli, vibranti di sdegno e sopraffatti da amore cristiano, i ministri della buona morte, gli apostoli del pentimento, operano nello sconcertante clima in cui violenza e pena si intrecciano con pietà , carità , perdono; ed è proprio alla loro infaticabile attività che si deve "lo stereotipo cristiano dell'esecuzione capitale", in cui l'applicazione della pena diventa dramma cristiano, sacra rappresentazione patibolare, dove rei, confortatori e carnefici danno funesto spettacolo, seguendo spesso un cerimoniale auspicato come perfetto, al cospetto di folle di spettatori il cui coinvolgimento è apertamente richiesto.

Pressanti istanze vendicative si addensavano nell'ara patibolare e si mescolavano con sentimenti di equivoca pietà: la struttura stessa delle presentazioni nella "letteratura del patibolo" tende a suscitare uno sdegno crescente nel lettore, facendo assumere alla condanna-vendetta il senso di un progressivo assaporamento liberatorio. Le relazioni che il popolo leggeva prima, durante e dopo i supplizi e le sentenze pubbliche, indicano nell'incipit il modello di riferimento di un Dio vindice e corrucciato, misericordioso padre e, nello stesso tempo, implacabile inquisitore e severo giudice, nel quale gli attributi di pazienza ed attesa operano una costante ricarica nella direzione dell'inesorabilità e dell'ira montante, un Dio che attende (si direbbe pregusta) il momento culminante dell'attività peccaminosa, il valicamento del sentiero criminale, per esibire con veemenza il tripudiante apparato dei suoi terribili "flagelli".

Iddio giusto giudice... per far vedere al mondo tutto gli effetti del suo rigore, si serve dei mezzi umani...e fa che la giustizia pure di questo mondo, vicegerente di quella del Cielo punisca con ceppi e con patiboli gli ostinati delinquenti.11

La giustizia secolare non può dunque che ratificare il volere celeste, limitando il suo compito a quello della 'gestione zelante' e dell'applicazione protocollare della legge divina. È inutile cercare di sottrarsi al proprio destino: la volontà celeste, infatti, "prolonga per dar tempo di penitenza al castigo, ma non perde la memoria dei misfatti" e soprattutto ama attendere, per colpire con più forza, per mortificare maggiormente la protervia dell'ostinato contumace:

Quanto più tarda la divina giustizia a dar mano alle sue vendette, altrettanto più pesante fa piombare sopra i malvagi il castigo, allorché addormentata rassembra nel sollevare, per eccesso d'una ineffabile misericordia, per lungo tempo i misfatti, scoppia ella per fine inaspettato il fulmine dello sdegno a deprimere con la gravezza della pena la contumacia de' delinquenti.12

Il rito patibolare introduce il momento dell'esempio, del discorso ideologico: seguito con discrezione dall'imperscrutabile occhio divino, sollecitato da innumerevoli pie invocazioni, il prigioniero della malattia del male, il reo, il peccatore renitente, il diverso, l'irregolare e incomprensibile aborto della natura ideale, viene trascinato al pubblico giudizio, convocato da Dio in persona: sacerdoti rituali e popolo spettatore prendono posto per partecipare al rito cruento, una "lagrimevole ed obbrobriosa morte", il cui svolgimento è ampiamente codificato.
La giustizia spiegata al popolo dava per scontata la punizione della colpa già prima del giudizio nell'aldilà; nella "letteratura del patibolo" è possibile cogliere un aspetto dell'escatologia caratteristica del lungo periodo di transizione in cui si svilupparono le società moderne: l'aspettativa del giudizio in hora mortis. Secondo Philippe Ariès sotto l'azione della Controriforma, gli autori religiosi dovettero lottare contro la credenza popolare secondo cui non era necessario darsi da fare per vivere virtuosamente, poiché una buona morte riscattava tutti gli errori, ribadendo che l'ultima prova, tipica delle artes bene moriendi, non poteva sostituire il giudizio finale alla fine dei tempi.13
Nel Libro dei giustiziati in Bologna, registro dell'Arciconfraternita di Santa Maria della morte, conservato nella Biblioteca Universitaria di Bologna, viene annotato il beffardo commiato di un condannato bolognese, Paolo Contelli, mentre saliva al patibolo il 14 gennaio 1673: "Cardinal Pallavicini, a rivederci nella valle di Giosafat!".14
Come si può vedere si trattava proprio di una divergenza su quale fosse il tempo del vero giudizio.

La sopravvivenza di questo tratto di mentalità - del giudizio in hora mortis - proprio nel periodo in cui, secondo Ariès, esso mutava radicalmente nelle concezioni della cultura d'élite, è attestato nelle innumerevoli relazioni su condanne esemplari dove la biografia dei condannati non è ancora del tutto scritta prima della morte. Si incoraggiano popolo e rei a credere che tutto sia ancora da definire, e che dipenderà in buona misura dalla pia condotta che questi ultimi sapranno tenere in conforteria e sul patibolo. Come per il moribondo nella sua camera, la biografia definitiva del condannato dipende dall'esito dell'ultima prova che deve subire prima di morire. Spetta a lui vincere con l'aiuto del suo angelo e dei suoi intercessori, e allora sarà salvo, o cedere alle seduzioni dei diavoli, e allora sarà perduto.
I resoconti dal patibolo mettono in scena l'incontro della cultura popolare con quella della Chiesa sovrana, le disparità di mentalità e di intenti: come in tutti i messaggi di propaganda, in seno ad una nascente cultura di massa, bisogna tener presente la sensibilità di coloro a cui ci si rivolge, per favorire la penetrazione dei contenuti ideologici; ed è indubitabile che lettori e spettatori di avvenimenti sensazionali, permeabili al gusto antico di tutto ciò che si presentava straordinario e iperbolico, avessero interiorizzato, per convenienza, l'idea di potersi mondare dai peccati in qualsiasi momento, anche sulla soglia estrema della vita. Gli ecclesiastici, consapevoli delle esigenze del proprio pubblico, non esitavano a servirsene per scopi ideologici e per rafforzare il carisma delle istituzioni sovrane. Il pentimento del condannato sulla forca acquista pertanto valori piuttosto diversi rispetto ai punti di vista delle due culture: per gli spettatori si direbbe che svolga un ruolo retorico, atto a regolare i meccanismi proiettivi della fruizione spettacolare e a permettere lo scioglimento catartico (un macabro 'lieto fine'); per la Chiesa si tratta invece di rispettare un rituale religioso, di affermare che il patibolo è un 'santuario penale', il luogo della morte esemplare, crocevia fra la terra e il cielo, fra la dannazione e la salvezza.
Secondo Delumeau, l'Italia, "travagliata in epoca rinascimentale da grandi angosce escatologiche, le dimenticò non appena il nuovo consolidamento religioso fece sentire i propri effetti dopo il Concilio di Trento": ciò avrebbe fatto sì che le paure collettive venissero incanalate in direzione individuale. Fu questa la ragione per cui "la Chiesa Cattolica finì per insistere assai più sul giudizio particolare che sul Giudizio Universale".15

Clero e autorità secolari reputavano fosse di grande importanza il buon successo dello "spettacolo di giustizia" e di conseguenza il pentimento del reo; nel trattato del gesuita Giacinto Manara, Notti malinconiche nelle quali con occasione di assister 'a condannati a morte, si propongono varie difficoltà spettanti a simile materia,16 le "notti malinconiche" dei condannati si mescolano indissolubilmente con quelle febbrili e devote ma insieme teatrali e visionarie dei loro padri confortatori.
Strategia del consenso e dell'autolegittimazione, l'opera di conforto doveva basarsi su tecniche di persuasione, insieme psicologiche e coercitive, per giungere al trionfo dell'esempio che illumina le coscienze, alla rassicurante formulazione tautologica del concetto di giustizia, al rigetto della devianza sociale nel calderone degli affetti diabolici.

Giulio Cesare Croce partecipò attivamente agli umori e ai sentimenti della piazza bolognese, al gusto del meraviglioso e agli orrori degli spettacoli di giustizia. Fece in tempo a vedere le nuove forche, introdotte nel 1604 per ovviare ai frequenti incidenti, con rottura dei capestri, che occorrevano con i sistemi precedenti, quando i condannati "si facevano morire alli merli del Palazzo o a fenestroni del Podestà... o pure ... di rimpetto a S. Petronio, come fanno adesso; ma in que tempi l'impiccavano ancora alli merli, o ringhiera, che ora non v'è più ed era chiamato l'Orto della Lazarina; o [l'impiccavano] in piazza S. Giovanni del Mercato, che ora si dice la piazza del Mercato, o della Montagnola".17 Poté assistere ai roghi dei primi 'luterani' e a quelli della "vera strega" Ippolita Bacanelli da Gangianigo nel 1577 e due anni dopo dello "stregone" Paolo da Granaglione, entrambi creature provenienti dalle montagne "aspre e alzate", incarnazioni del maligno influsso che caratterizzava gli homines sylvestres, creature inumane vomitate dalle oscure selve, a proprio agio soltanto nelle spelonche bestiali, parenti stretti di quell'Arrigo Gabertinga, "perfido villano maladetto" delle valli trentine, trucidatore, si assicurava, di novecentosessantaquattro persone e le cui infami gesta furono cantate dal poeta-pittore Giovanni Briccio.18
Non ebbe modo di valersi a lungo di uno strumento nuovo, quello dei "cedoloni" affissi alle colonne, per avere maggiori informazioni intorno alle cause per cui morivano i condannati, uso che entrò in vigore soltanto nel 1606, e pertanto dovette basarsi su congetture e voci della piazza per avere informazioni approfondite sui reati commessi e sulle motivazioni delle sentenze. Non vide ovviamente, l'anno prima della sua nascita, i falsari Giorgio e Domenico N.N. impiccati con un capestro e corona dorati, ma probabilmente ne sentì parlare quando nel 1587 fu giustiziato Bastiano detto il Carrotta, fiorentino, oste capo di ladri. Appiccato con un laccio d'oro con undici suoi compagni,19 e il cui "lamento" fu pubblicato indicando come autore il Croce, benché Piero Camporesi tenda a escluderlo.
Nel 1580 vide salire sul palco un sacrilego, di cui ci resta soltanto il nome, Michele - reo di aver rubato una Pisside con ostie consacrate nella chiesa di san Bartolomeo e che fu "squartato vivo" - una singolare fattispecie di reato, sentenziata in forma sempre esemplare e "crudelissima" come accadde nel 1594 per Matteo Fondarini da Savigno e nel 1598 per Pietro Bertoli da Piacenza e Pellegrino Bianchi da Formigine: un reato che oggi ci sembra incomprensibile e la cui motivazione deve essere cercata nel fatto che le ostie consacrate dovevano essere molto ricercate e avere un notevole valore nel mercato nero che alimentava i produttori di talismani stregoneschi e la farmacopea del maleficio, un mercato sinistro e ancora scarsamente documentato che attingeva del resto anche ai cadaveri dei condannati, consegnati alla pubblica "anatomia" e rivenduti clandestinamente ai lambiccatori di filtri "diabolici" e di altre simili "stregarie".
È probabile che Croce avesse fatto parte di quel "grande concorso di popolo" radunato in San Petronio dove fu esposto il cadavere dell'ebreo Allegro Orsini, giustiziato nel 1593 per "peccato nefando" e che tuttavia volle morire cristiano, facendosi battezzare prima dell'esecuzione, assumendo il nome di Paolo, caso di tale risonanza da essere registrato nel libro degli esempi di Iano Aineo eritreo. Pochi anni prima, nel 1590, era stato giustiziato l'ebreo Manas, dalla cui vicenda Croce aveva tratto il Lamento e morte di Manas hebreo che fu tenaiato, tagliato una mano et appiccato per omicidi et altri deliti.20
Cosciente dell'ineluttabile esistenza di due realtà sociali diverse e di due culture separate, Croce mostra un atteggiamento assai diverso nel cantare le gesta criminali a seconda del ceto dei condannati: scivola nel registro patetico quando questi appartengono all'élite, ma partecipa con ilare cinismo al sentimento collettivo che sospingeva con frizzi e lazzi i figli della plebe nelle braccia del boia.
Scrive il resoconto del Caso compassionevole et lacrimoso...de' duoi infelici amanti21 Madonna Ippolita Passarotti e Ludovico Lantinelli, avvelenatori ,"si disse", "del di lei padre", decapitati in piazza nel 1587 come si conveniva per i condannati di rispetto. Non entra nel merito dei delitti commessi, anzi, non ne fa neppure accenno, ponendo in primo piano la scena dei due infelici che sul palco si scambiano promesse d'amore da realizzare nell'altra vita. Ambedue vestiti di "cotone nero" in segno di lugubre pentimento (era gennaio) i disgraziati amanti diventeranno una sorta di cliché che molto probabilmente influenzò una celebre relazione che ebbe molta fortuna negli anni a seguire, basata sulla condanna della giovane Isabella,22 figlia di gentiluomo, rea di aver assassinato padre e madre colpevoli di contrastare il suo amore per "un bellissimo giovine figliuolo di un mercante" e che andò fiera al patibolo per mostrarsi come "specchio", anche lei nerovestita e con "berrettone" di lugubre panno. Si trattò di una relazione emblematica in quanto la stessa vicenda fu riciclata dagli stampatori dandone notizia in qualità di caso occorso a Malta nel 1672, per lo stampatore bolognese Giacomo Monti, a Marsiglia nel 1680, per gli eredi del Pisarri e a Nizza nel 1739 per i fratelli Sassi e che getta una luce significativa sulla disinvoltura con la quale le notizie sensazionali venivano trattate.

Croce subisce il fascino di celebri condanne il cui clamore supera gli abituali confini traducendo e componendo il Lamento et esclamatione fatta dal duca di Birone avanti la sua morte23 nel quale l'esecuzione del maresciallo di Francia Charles de Gontaut, duca appunto di Biron, avvenuta a Parigi nel 1602, viene celebrata con toni eroici ed appassionati, ricordando il "cavaliero invitto, ardito e forte" le cui "alte imprese" "in gloriosi carmi già fur cantate", in una rasserenante atmosfera di sincero pentimento:

Con ragion muoio, e così pare, e piace,
al mio Signor, et è ben giusto, ch'io
paghi con morte il mio pensier fallace.

Partecipando sicuramente al sentimento popolare Croce cambia radicalmente registro nel descrivere la morte di ladri comuni, malfattori e banditi capitali, non risparmia il sarcasmo per la sorte "meritata" di "tagliacantoni", "graffignanti", "agazzatori" e "rampinanti", benché alcuni fossero autori di reati che oggi stenteremmo a definire tali come Tommaso Melino, impiccato "per aver fatto una scala di corda", Giuseppe da Castello impiccato per aver "dato uno schiaffo in pubblica piazza all'Auditor del Torrone", Michele Sermoneta bruciato in piazza per aver "gettata una sassata ad un'immagine d'un Crocifisso", Pasquale di Corsica "appiccato per aver tagliato molti piedi di vite nella possessione di Francesco Grassi", Angiolino Sacchetti giustiziato per aver lacerato un bando del Cardinal legato, Giacomo Belloni per essersi finto sacerdote e aver amministrato i sacramenti, Marco Tinarelli per aver rubato quattro mortadelle, oppure tre anonimi ladri di cassette dell'elemosina, impiccati nel 1607 - tutti casi documentati nel Libro de' giustiziati in Bologna.

Facile era la via che conduceva al patibolo se persino un lupo catturato presso la chiesa di Santa Maria del Baraccano finì impiccato alla ringhiera nel 1542 perché il fatto era considerato di "sinistro portento".
I banditi del resto finivano sui patiboli a schiere come la banda di dodici assassini di strada guidata dal "misero Carotta", "costretto a lasciarsi appiccare" "sol per uscir del mondo pien di guai", condividendo il destino di tantissimi consimili scorridori del contado bolognese.
Vendetta, sollievo, senso di liberazione erano i sentimenti che accompagnavano l'esecuzione capitale di coloro che insidiavano il quieto vivere dei cittadini. Le gesta criminali venivano spesso considerate come appartenenti a un mondo di sregolatezza e di proterva licenza, un territorio dopotutto assimilabile a una sinistra contrada di Carnevale. Così gli spettacoli di giustizia si imponevano per ristabilire l'ordine quaresimale. Croce sembra avvalorare una simile interpretazione nel mostrare maschere grottesche di condannati, come Pontichino,24 "ladro famosissimo", giunto "in piazza a far linguino", "saltarelli e capriole" "belle rare et esquisite":

E di tutti alla presenza
mostrarò la mi eccellenza
su la piazza e vederanno
quei ch'attorno mi staranno
quanto son buon ballerino.

La Barzelletta sopra la morte di Giacomo dal Gallo, famosissimo bandito25 si apre con uno sberleffo indirizzato al gallo che ha perso la cresta e che ha finito di beccare l'altrui esca e di violare i pollai non suoi:

Chi chi richi, cuchu ruchu,
già cantar soleva il gallo,
or è andato giù dal vallo
e non canterà mai più,

uno sghignazzo seguito dal rammarico di non poter assistere a una giustizia più esemplare

ma una morte si onorata
non mertava sto ribaldo
ma squartarlo caldo caldo
e brugiarlo poi di più.
Strascinarlo parimente
tanagliandoli la carne
e di questo tristo farne
mille strazij e ancor di più.

Se vi fossero ancora dubbi sull'assimilazione degli spettacoli di giustizia al mondo carnevalesco, in quella sua dimensione rimossa e macabra dove il riso diventava crudeltà, basterà ricordare alcuni episodi sintomatici:26 il 6 febbraio 1599, in tempo di Carnevale, venne bruciato Guglielmo Marsigli ferrarese; ma l'omicida fu prima impiccato "in abito da Zanni". Quasi un secolo più tardi, il 18 dicembre 1688, il bandito capitale Ermes Minelli delle Lagune, non essendo in grado di muoversi perché ferito, fu portato al patibolo su una sedia da tre uomini "mascherati da zagni" e "tirato su con una girella". La scena si ripeté ancora nel 1713, protagonista Giuseppe Franchi, oste di Castenaso, sempre in tempo di Carnevale.

Ormai Croce aveva smesso da tempo di cantare gesta criminali, ma, se avesse potuto, credo che avrebbe approvato incondizionatamente il mantenimento di certe tradizioni.


NOTE

1 - Per una panoramica storica sul sentimento di 'meraviglia' e il mutevole rapporto tra 'meraviglioso' e filosofia naturale si rimanda al recente studio di Lorraine Daston e Katharine Park, Wonders and the Order of Nature. 1150-1750 (Urzone, 1998); trad. it., Le meraviglie del mondo. Mostri, prodigi e fatti strani dal Medioevo all'Illuminismo, Roma, Carocci, 2000.
2 - Una rassegna della pubblicistica bolognese, analizzata alla luce del mercato dell'informazione cinque e seicentesco, è stata presentata in Una città in piazza. Comunicazione e vita quotidiana a Bologna tra Cinque e Seicento, a cura di Pierangelo Bellettini, Rosaria Campioni, Rita Zanardi, Bologna, Editrice Compositori, 2000, in particolare: Ezio Raimondi, Tra novellisti e avvisi, pp. 11-14; Carlos H. Caracciolo, L'informazione a Bologna tra Cinquecento e Seicento: il caso degli 'avvisi a stampa', pp. 77-90.
3 - Carlo Gozzi, Marfisa bizzarra, XXII, 56, edizione a cura di Cornelia Ortiz, Bari, Laterza, 1911, p. 295.
4 - Distinta relazione di un caso seguito nella città di Torino li 16 ottobre 1737, in Bologna per Carlo Alessio e Clemente Maria fratelli Sassi, 1737.
5 - Giulio Cesare Croce, Cosmografia poetica, di nuovo ristampata, in Bologna per gli heredi del Cochi. Al Pozzo rosso di San Damiano, 1623.
6 - Avisi burleschi di più città. Venuti di qua e di là, di su e di giù, e da diversi luochi del Mondo, dove si dà ragguaglio delle cose più maravigliose, che siano sucesse dall'anno che voi sapete fin al presente. Portati da Bragalissi Corriero del Prencipe caca pensieri, che venuto in posta sopra una lumaca, in Bologna per gli Eredi del Cochi, 1637.
7 - Verissima relazione venuta a Lisbona dove s'intende la nascita di un putto di brutissima figura tutto armato, con una croce nel petto. Cosa degna d'esser letta, in Milano, Ferrara et di nuovo in Bologna per Giacomo Monti e Carlo Zenero, 1639.
8 - Narrazione delli maravigliosi prodigi apparsi nella città di Baiona in Francia. Dove s'intende li stupendi segni veduti in aria, con il nascimento d'un figliuolo che aveva trentatre occhi, e visse trentatre giorni, parlò tre sole parole di vera e gran considerazione. Et s'intende anco come i suoi genitori furono conosciuti esser cristiani, e principi di sangue reale, in Napoli, Brasciano et in Bologna, per Nicolò Tebaldini, 1622.
9 - Avisi burleschi venuti da diverse parti del mondo, cose notabilissime e degne da essere intese, in Bologna per l'erede del Cochi, da S.Damiano, s.a. (una successiva edizione degli Eredi del Cochi è del 1628).
10 - Il tema ha una vasta eco nell'opera di Augusto Placanica, Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto del Settecento, Torino, Einaudi, 1985.
11 - Vero, nuovo e distinto ragguaglio della giustizia fatta nella città di Mantova contro Diomede Danieli e Gio. Antonio Lucia. Li 27 giugno 1733. Con la dichiarazione di tutte le loro colpe, in Venezia, in Modona ed in Bologna, per Carlo Alessio e Clemente Maria fratelli Sassi, 1733, c. 1 v.
12 - Relazione della giustizia seguita in Venezia il dì primo settembre 1740. Con la dichiarazione delle colpe e misfatti di Francesco Pellizzan Carrer di anni 18 circa, della villa di Parona fuori della Porta di San Giorgio, tre miglia discosto dalla città di Verona. Reo di furto commesso verso tre piccioli fratelli innocenti, poi privati di vita, gittati nell'Adice, condannato ad esser decapitato e diviso il di lui cadavero in quattro quarti ed appesi a' luoghi soliti, in Venezia, 1740, s.n.t.
13 - Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano Rizzoli, 19802, p. 40. Come è noto l'opera è un'anticipazione della monumentale ricerca sulla morte che ha tovato il suo completamento in L'homme devant la mort, Paris, Editions du Seuil, 1977, tr.it., L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Bari, Laterza, 1980. Per la tematica considerata, importanti riferimenti in quest'ultima opera sono a p.125. Cfr. inoltre: A.Ja Gurevic, Problemy srednevekovoj narodnoj kul'tury, Moskva Iskusstvo, 1981; trad. it., Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Torino, Einaudi 1986, pp.195 e sgg., pp.372-376. Studiando la "letteratura delle visioni", l'autore in grado di correggere l'epoca in cui alla escatologia "universale" si affiancò quella individuale e di far risalire fino ai secoli VI-VIII la compresenza dei due atteggiamenti mentali. Ad Ariès sarebbe imputabile l'aver tenuto conto solamente delle testimonianze iconografiche che, come noto, hanno fatto ritenere, al celebre studioso della morte, di poter individuare la nascita della concezione "individuale", soltanto a partire dai secoli XII-XIII.
14 - Libro de Giustiziati in Bologna, estratto dall'originale della Compagnia ed Arciconfraternita di Santa Maria della Morte, che comincia li 10 gennaro dell'anno 1540, Bologna, Biblioteca Universitaria, ms.2042.
15 - Jean Delumeau, La peur en Occident, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1978; tr. it., La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII), Torino, S.E.I., 1979, p. 352. Il tema è ampiamente trattato anche in Le péché et la peur. La culpabilisation en Occident (XIIIe - XVIII siècles), Paris, Fayard, 1983; tr. it., Il peccato e la paura. L'idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 1987, in particolare alle pp. 941-995.
16 - Padre G. Manara, Notti malinconiche nelle quali con occasione di assister'a condannati a morte, si propongono varie difficoltà spettanti a simile materia..., Bologna, G.B. Ferroni, 1668.
17 - Libro de Giustiziati in Bologna, cit. (11 settembre 1604).
18 - La sciagurata vita di Arrigo Gabertinga assassino di strada: il quale ha ammazzato un infinito numero di persone, con i suoi figliuoli, nel territorio di Trento. Posto in ottava rima da Giovanni Briccio Romano ad essempio de i tristi, in Milano, in Genova, in Pisa, in Firenze et in Todi, appresso Aniballe Alvigi, 1625, c. 2 r. La "crudel historia" del bandito è stata analizzata, in più ampia prospettiva, da P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, cit., p.43 e passim. Per i processi inquisitoriali, Guido Dall'Olio, Eretici e Inquisitori nella Bologna del Cinquecento, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1999.
19 - Lamento di Bastiano detto il Carrotta, fiorentino, oste capo di ladri. Appiccato con un laccio d'oro con undici suoi compagni in Bologna l'ultimo di Genaro del 1587, stampata in Siena e ristampata in Perugia per Pietropaolo Orlando, 1587. Si segnala un'altra edizione, con il nome del Croce nel frontespizio, Lamento quale ha fato il Carotta e i suoi compagni, in Modona, per Paolo Gadaldino, s.a., ma sicuramente successiva. La notizia trova conferma nel Libro de Giustiziati in Bologna: il 31 gennaio 1587 vengono impiccati 12 uomini di varia provenienza "per essere stati promotori d'un solevamento, quale poscia non gli riuscì".
20 - - Giulio Cesare Croce, Lamento e morte di Manas hebreo che fu tenaiato, tagliato una mano et appiccato per omicidi et altri deliti. Caso sucesso nella magnifica Città di Ferrara il dì ultimo d'aprile 1590, di Giulio Cesare Croce, in Bologna per gli eredi del Cochi, sotto le Scuole, 1644.
21 - - Giulio Cesare Croce, Caso compassionevole, et lacrimoso lamento de' duoi infelici amanti, condannati alla giustizia in Bologna, alli 3 di genaro, 1587, composto per M. Giulio Cesare Croce Dalla Lira, s[t]ampata in Modona, s.t. e s.a.
22 - La prima edizione che abbiamo rintracciato è del 1672: Nuova e distinta relazione di una diabolica rissoluzione seguita nella città di Malta di una figliuola di età di diciannove anni, quale, dominata dal diavolo, ha dato morte al proprio padre e madre, e due figliuoli, uno di tre mesi e l'altro di quindici. Con il severo e giusto castigo che ne ha fatto la giustizia, e un avertimento che fece al popolo avanti la sua morte. Seguito alli 10 agosto del 1672, in Bologna, per Giacomo Monti, 1672. Lo spunto della pubblicazione fu forse dovuto all'impiccagione 'postuma' del cadavere di una donna, l'11 maggio del 1672 a Bologna: "doveasi giustiziare una donna per avere uccisi due suoi nipoti; ma perché si affogò da se stessa nelle carceri, fu così morta appiccata, e sepolta alle Mura". Ovviamente si tratta di un caso ben diverso, ma gli stampatori erano abituati a non sottilizzare.
23 - Giulio Cesare Croce, Lamento et esclamatione fatta dal duca di Birone avanti la sua morte, di G.C.C., in Bologna, presso gli heredi di Gio. Rossi, 1603.
24 - Giulio Cesare Croce, Lamento di Pontichino ladro famoso, di Giulio Cesare Croce, in Bologna, per gli heredi del Cochi, al Pozzo Rosso da S. Damiano, 1630 (riedizione del Lamento di Pontichino ladro famoso, Bologna, Bellagamba, 1605, condotta probabilmente su variazioni dell'autore. Cfr. un'altra edizione degli eredi del Cochi, s.a. con differenze nel titolo e nel testo: Lamento di Pontighino, ladro famosissimo).
25 - Giulio Cesare Croce, Barzelletta sopra la morte di Giacomo dal Gallo, famosissimo bandito. Di Giulio Cesare Croce, in Bologna, per lo Erede del Cochi, al Pozzo rosso, s.a.
26 - Le notizie che seguono sono sempre tratte dal Libro de Giustiziati in Bologna, cit.


Questa relazione è stata presentata il 4 marzo 2000 al convegno di studi "La festa del mondo rovesciato: percorsi della letteratura carnevalesca in Europa" svoltosi a San Giovanni in Persiceto - Bologna - in occasione del Carnevale storico persicetano del 2000 - Edizione speciale per ricordare i 450 anni dalla nascita di Giulio Cesare Croce.
Il testo è stato successivamente pubblicato nel volume miscellaneo a cura di Elide Casali e Bruno Capaci,
La festa del mondo rovesciato. Giulio Cesare Croce e il carnevalesco, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 177-195


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